Nell’immaginario di tutti quando si parla dei Monti Sibillini subito si staglia nella mente la figura della Sibilla Appenninica o delle fate sibilline. In realtà i Sibillini non sono solo questo. Andando a scavare un po’ di più nel folklore marchigiano si scopre un profondo tessuto nascosto fatto di streghe, di demoni, di racconti paurosi. I ricordi di serate passate intorno al fuoco ascoltando i moniti dei nonni, delle cose che si potevano e non si potevano fare, dello stare attenti a non mandare l’intera famiglia in disgrazia sfidando la sorte.
Non entrerò nel merito della figura storica della strega, del fenomeno soprattutto medievale dell’inquisizione, dei processi e di come, molto probabilmente, le streghe erano semplici donne, magari anticonformiste o con atteggiamenti “diversi” dagli altri. Da alcuni abitanti si evince subito questa cosa: “Le sdreghe era la paura nostra. Da soli ce facevamo le sdreghe” (Campolungo). Cioè le streghe a volte ce le facciamo noi da soli, non esistono in realtà. Però… c’è quel però sospeso che ti mette un po’ in ansia quando percorri una strada di campagna di notte da solo e ti avvicini ad un incrocio, oppure quando senti dei rumori strani…
Nelle prossime righe vi racconterò proprio di questo: di come si diventa strega, di come si riconoscono le streghe e cosa fare per proteggersi da loro. Questo posso farlo grazie alle interviste effettuate da Mario Polia agli anziani del territorio e raccolte nel suo bellissimo libro “Tra Sant’Emidio e la Sibilla. Forme del sacro e del magico nella religiosità popolare ascolana”. Quello che ne viene fuori è un affascinante spaccato del senso del magico di questo territorio.
Chi erano le streghe per gli abitanti dell’area pedemontana (anzi sdreghe, come vengono comunemente chiamate nelle Marche)? Nella mentalità popolare molto spesso erano quelle che avevano dei difetti fisici o menomazioni tali da renderle diverse. Un esempio su tutti sono le zoppe, oppure persone particolarmente “brutte”. O ancora potevano essere donne che non rispettavano le consuetudini della vita di tutti i giorni o che non vivevano come si conviene in società, come ad esempio le donne solitarie o misantrope.
C’era anche un’altra categoria di strega. Questa poteva essere una ragazza bellissima ammaliata da qualche rito oppure anche delle ragazze che hanno avuto “sfortuna” da bambine. Infatti due erano le condizioni che ti avrebbe fatto diventare una strega da adulta: nascere la notte di Natale (notte notoriamente sacra al Salvatore) oppure a causa della disattenzione del padrino di battesimo. Se questo “si fosse sbagliato nel pronunciare la formula battesimale rispondendo al sacerdote che chiedeva “Vis baptizari” (Chi vuol essere immerso?) “gòlo” invece di “volo” (io)” a 25 anni la malcapitata sarebbe diventata una strega. E se invece era un maschio? In quel caso si sarebbe trasformato in lupo mannaro (Montemonaco).
Alcune volte la strega poteva essere addirittura un parente che magari viveva nella stessa casa della famiglia. La più gettonata era la suocera (madre del marito). Questa la notte poteva trasformarsi per andare a succhiare il sangue dei poveri nipotini all’oscuro degli altri famigliari. Un segno dell’avvenimento era il fatto che il bambino deperiva lentamente, spegnendosi giorno dopo giorno. Per fermare le atrocità c’erano diverse strade. Una via era di scottare la nuca del bimbo con una candela benedetta nel giorno della Candelora recitando delle frasi rituali (Rigo di Montegallo). L’altra strada serviva anche per scoprire chi fosse la strega: si doveva prendere i panni del bambino malato e si dovevano mettere in un calderone per poi bollirli. Durante questa fase andavano rimescolati più volte e più bolliva l’acqua, più ribolliva e si rimescolava il sangue della strega che, non potendone più sarebbe schizzata via verso il camino per scappare dalla casa. A quel punto, bisognava essere rapidi, si doveva pungerla con uno spillone o un coltello e far uscire un po’ di sangue per neutralizzarne il potere prima che fosse troppo tardi (Corbara di Montegallo). Chi non vorrebbe pungere la suocera, ditemi la verità!
Continuando a parlare di infanti, dai vecchi racconti sembrano siano le vittime predilette delle streghe. Si doveva evitare di lasciare i panni dei bambini fuori durante la notte perché potevano essere rubati per i loro macabri riti (Castel Trosino) e i bambini non battezzati non dovevano mai rientrare dopo che fosse suonata l’Ave Maria, che un tempo la campane delle chiese suonavano all’imbrunire, segnando l’inizio della sera (Corbara di Montegallo). Addirittura, in alcune zone, i bambini non battezzati non potevano proprio uscire e se si doveva portarli fuori casa veniva appeso loro al collo un “breve”, una specie di amuleto, con al suo interno qualche granello di sale (Mozzano, Ascoli Piceno).
Il luogo da proteggere maggiormente era la casa, area “sacra” per il nucleo famigliare, dove si riposava, si passavano le lunghe giornate invernali o dove ci si riuniva attorno al fuoco a raccontare storie; ma anche la stalla dove riposavano gli animali era importante perché fonte di ogni sostentamento della famiglia rurale marchigiana. I punti deboli da difendere erano quelli che avevano un contatto con l’esterno come le porte, le finestre, il camino, la “gattarola” (cioè il pertugio sotto la porta che si utilizzava per far entrare il gatto) o anche la stessa serratura della porta.
Per evitare che le streghe si introducessero nottetempo, magari perfino trasformata in qualche animale per destare meno sospetti, si potevano utilizzare degli oggetti dalle proprietà magiche, apotropaiche.
Un primo esempio riguarda il caminetto. Spesso, nell’ascolano, quando si udiva la lugubre risata della civetta, animale associato alle streghe e presagio di morte, prima di andare a letto si arroventava la paletta del fuoco e si metteva sul camino pronunciando alcune frasi rituali, per evitare che le streghe si calassero dalla canna fumaria approfittando delle tenebre.
Altri elementi “protettivi” erano la scopa di saggina capovolta (Montemonaco) o dei sacchetti di sabbia collocati dietro la porta di casa, oppure una spiga di un tipo di cereale, il pànico (Castel Trosino) sul davanzale della finestra. Se le streghe provavano ad entrare in casa dovevano necessariamente contare tutti i fili della scopa o tutti i granelli di sabbia o tutte i chicchi del cereale prima di accedere. In questo modo, perdendo molto tempo nel compiere le operazioni, sarebbe giunto il mattino che con la luce del sole le avrebbe fatte scappare velocemente. La luce del sole, infatti, scaccia via le tenebre e tutte le figure malefiche che in esse vivono: demoni, fantasmi, streghe. Per questo motivo, in diverse magioni cinquecentesche, erano scolpite sugli architravi di porte, finestre e addirittura del camino il simbolo del sole radiante con al suo interno le lettere IHS (Cristogramma = Iesus Hominum Salvator), in alcuni casi. Era un modo di aumentare la protezione della casa, andando a fondere credenze popolari, magari di origine pagane, con la religione cattolica.
Giglio, Sole Radiante con all’interno la scritta IHS e fiore della vita. Architrave all’interno di un vecchio edificio dell’abitato Cossinino da Piedi. Ph: Nicola Pezzotta
Anche il simbolo del Cardo carlino o Fiore della vita aveva probabilmente lo stesso scopo proprio per la sua somiglianza alla nostra stella. A volte sugli architravi di ingresso di questi edifici si scolpivano anche delle scritte incomprensibili, indecifrabili, tanto che ancora oggi si tenta di capire cosa ci sia scritto (Cossinino da piedi, Colloto). Queste iscrizioni avevano lo stesso scopo della scopa di saggina: far perdere tempo alla strega che per tentare di leggere e capire il significato si sarebbe fatta sorprendere dal sole nascente.
Iscrizione ancora indecifrata in un edificio dell’abitato Cossinino da Piedi. Le tesi su questo portale sono ancora oggi molto dibattute. Ph: Luca Marcantonelli
Simile al ruolo della scopa era quello della cazzuola da muratore (Astorara di Montegallo) o delle schegge di ferro staccatisi dall’asse del mulino. Anche queste andavano messe dietro alla porta e per queste la strega doveva indovinare il numero di volte che il muratore tirava la calce oppure il numero delle rivoluzioni dell’asse del mulino. Da non sottovalutare anche il forte valore protettivo dato al ferro; si usava, infatti, incrociare forchette metalliche sul davanzale della finestra (Campolungo) che così disposte sfruttavano anche il potere sacro del segno della croce.
Per utilizzare questo potere venivano usate anche le felci grazie alla loro foglia a forma di croce. Queste venivano riunite in mazzetti e disposte dietro le porte e le finestre delle stalle (Castel Trosino, Cervara). Infatti le streghe solevano utilizzare gli animali per le scorribande notturne. Al mattino, quando l’allevatore apriva la stalla, trovava tutte le vacche sudate che sbuffavano infuriate oppure cavalli sfiniti, mezzi tramortiti, con tutti i peli della criniera e della coda annodati in accurate trecce (Piano di Montegallo, Castel Trosino). Era il segno che la strega aveva rapito gli animali la notte precedente. Ma come facevano le streghe ad entrare nelle stalle se queste erano accuratamente chiuse? Potevano entrare dal pertugio della serratura, trasformata ad esempio in ragno, e far uscire non gli animali fisicamente ma soltanto la loro “ombra” o “anima” per poi riportarla dentro prima del mattino. In pratica era soltanto il corpo aereo degli animali quello che veniva portato fuori. In alcune località si usava mettere anche delle foglie di valeriana all’interno del buco della serratura per scoraggiare le streghe ad entrare.
Entità eteree. Ph: Nicola Pezzotta
Quindi come abbiamo visto le streghe si potevano trasformare in ragni. Non solo gatte, ma in svariati tipi di animali come serpenti (Castro di Montegallo), scrofe (Vallegrascia), insetti, cavallette, rospi o capre. La metamorfosi più spaventosa è comunque l’invisibilità (Castel Trosino) perché è quella più pericolosa. Particolare è il racconto del Petruzzi in “Streghe e stregonerie nel folklore marchigiano” del 1979:
“un contadino, continuamente molestato da una gatta, un giorno prese un sacco e ve la chiuse dentro. L’indomani, nel sacco ritrovò la sua ragazza completamente nuda. Questa, caduta in potere di una strega, era divenuta strega anch’essa. Così, mentre di giorno conservava le sue sembianze di donna, durante la notte assumeva quelle di gatta. Per salvarla dall’incantesimo, il giovane escogita un sistema: quando si approssima la notte e, con essa, l’ora della metamorfosi, le dà un lume da tenere in mano senza mai lasciarlo e si tiene pronto con un bastone per inseguirla una volta che si fosse trasformata in gatta. Il lume cade, la donna per incanto scompare ed una gatta appare slanciandosi furiosa su per la cappa del camino. Una randellata la ferisce e, cadute alcune gocce di sangue, ecco riapparire di nuovo la ragazza, ormai guarita perché, per curare le streghe ed anche i mannari, occorre cavare dal loro corpo un po’ di sangue”.
Come si può notare il cane non è un animale prediletto per le trasformazioni, anzi la strega ne ha proprio paura. Si narra di un signore (Piano di Montegallo) che incontrò misteriose lavandaie notturne sulla sponda di un ruscello e che queste lo avessero fatto vivere solo perché portava con se il suo cane. In altri luoghi (Corbara di Montegallo) si raccontava di una macabra usanza per non far avvicinare le streghe all’uscio di casa: seppellire davanti alla porta tre cagnolini vivi.
Se si era di fronte ad un animale sospettato di essere una strega si doveva pronunciare la frase “oggi è sabato a casa mia” facendosi il segno della croce sulla fronte, sul naso e sulle labbra. L’animale in questo modo sarebbe scappato perché il sabato è il giorno della Vergine figura molto temuta dalle maliarde. Lo stesso vale se si pensa che la donna che si è introdotta nella propria casa sia una strega:
“Ogghji è sabbutu, doma’ adè venerdì
A casa nostra non ce pozza mai vinì”
Ma come facevano a trasformarsi in animali di qualunque stregua? Usavano cospargersi di un unguento a base di erbe di montagna. La formula è riportata da un abitante di Castelluccio di Norcia:
“usavano le erbe, e di quella che risultava, ne tenevano sempre una bottiglia riservata, perché per fare questa medicina ci voleva tempo. Le erbe dovevano stare per sette lune fuori dalla finestra (…) ma non sette mesi, sette notti di luna piena. E mentre facevano ‘sta medicina dicevano certe parole che s’erano tramandate tra di loro e che quando poi se la prendevano ci diventavano animali. Le erbe per questa medicina, sono tutte erbe di montagna. Sono parecchie: la genziana, la belladonna, il rabarbaro, il cardo carlino, il sambuco. Si raccoglievano queste erbe, si bollivano fino a ridurre l’acqua dove bollivano da un litro a mezzo litro, poi si facevano freddare e si tenevano fuori per sette lune piene. Oltre che a strusciarcisi, ne dovevano bere al momento della trasformazione, trenta quaranta gocce con l’acqua e un po’ buttarsela pure sulla testa, però soprattutto se la dovevano bere perché c’aveva ‘na forza micidiale, tanto che quando la bevevano urlavano perché questa medicina le trasformava proprio. Era una medicina che se la piglia una persona normale muore subito tant’è avvelenosa”.
A volte capitava di notte di sentire tra le chiome degli alberi un rumore fuoribondo, uno sbattere di ali assordante oppure echi di feste lontane, svanite appena girato l’angolo. Erano le streghe che si riunivano in convegno con il demonio per compiere pratiche magiche, orge diaboliche e riti blasfemi (sabba).
Il Grande Caprone, Goya, 1795. Fonte: internet
I famosi sabba sembra che nell’ascolano si svolgessero nelle notti tra il venerdì e il sabato (alcuni dicono anche il martedì). Si potevano anche spiare nel loro pellegrinaggio: se le volevi vedere dirigersi ai sabba dovevi posizionarti ad un crocicchio (incrocio di più strade) e appoggiare il mento tra i denti di un forcone da fieno. Però dovevi rimanere in silenzio, anche se venivi violentemente insultato e ingiuriato. In questo modo non rischiavi di essere mazziato o portato via. Se passando in alcuni incroci si sentiva il puzzo di olio rancido lì erano passate le streghe, perché usavano cospargersi di quell’unguento prima di recarsi alle loro riunioni (Cervara, Isola San Biagio, Piano di Montegallo, Castel Trosino).
Sinistre presenze. Ph: Luca Marcantonelli
Un ultimo sistema per proteggersi dalle streghe era ovviamente l’acqua santa. Anzi, questo elemento aveva il posto principale tra i rimedi per tenere lontano il maligno, anche se più difficilmente reperibile degli altri. Si diceva anche che, per scoprire chi fosse una strega, nella messa della notte di Natale bisognava mettere un pettine nell’acquasantiera. Al termine della cerimonia tutti sarebbero usciti tranne la malcapitata che sarebbe stata così scoperta (Castel Trosino).
In definitiva sono molto contento di essermi imbattuto in questo bel testo. Tali ricerche mantengono viva la memoria delle nostre terre alte che altrimenti andrebbe persa, nell’oblio del presente.